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Giovanni Ubezio non è uno scrittore professionista: svolge il mestiere di taxista a Milano. Tuttavia è autore di racconti: spiazzanti, divertenti, profondi, sorprendenti. Scrive grazie a una sorta di dittafono, seduto in auto, durante le pause ai posteggi, mentre i suoi colleghi leggono il giornale o chiacchierano. È cauto e molto preciso, lento e perfezionista; ha una propria idea della perfezione: riporta con fedeltà assoluta i dialoghi avvenuti all'interno del suo taxi e le riflessioni personali, prive di filtri o rimaneggiamenti, fermate nella memoria o appuntate velocemente durante l'orario di lavoro.
Poi, nei momenti di attesa dei clienti, il dittafono stende in caratteri digitali quanto Giovanni Ubezio legge da questi piccoli fogli. Il risultato è che queste brevi narrazioni hanno fatto richiamare i nomi di Robert Walser o Raymond Carver.È grazie a un caso del destino, se quelli che lui definisce racconti sono giunti oggi alla pubblicazione.« Descrizione di una giornata qualunque », « Discorsi aziendali », « Le donne del centro », « Centro stomatologico » sono alcune delle ventisette suite memorabili in cui incontriamo passeggeri bizzarri, apparentemente banali o segretamente visionari, talvolta enigmatici - un corteo di creature viventi migrate sulla pagina scritta con esistenze quotidiane e normalissime, fatte di dolore sottile e di piccole illuminazioni, che i romanzispesso trascurano.
Giovanni Ubezio sa descriverle con uno stile limpido e potente, intrecciando dialoghi commoventi, folgoranti o esilaranti sullo sfondo di scenari metropolitani. La parola prende forma come se stesse riprendendo un discorso lasciato a metà e, dalla primitiva e suggestiva oralità, si materializza sulla pagina diventando racconto originale e unico. È una narrazione fuori dal tempo, abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, in cui l'episodio e la riflessione appaiono, per poi dissolversi, scomparire.
Stupore e turbamento colgono il lettore davanti a questi Prosastücke vertiginosi, davanti all'eccezionalità di una scrittura che sembra non essere mai uscita da un eden privo di colpa, in una lingua innocente eppure precisa e sorprendente. La scrittura scarna, minimale, controllatissima non offre distrazioni o trasfigurazioni, einchioda il lettore alle vicende del taxista e dei suoi personaggi. L'autore di Il cane che mi guardava è dotato di un orecchio assoluto che ascolta i battiti del mondo e avverte i movimenti che un tempo furono delle storie orali e oggi si affidano a questa disincarnata, ordinaria, umana e concretissima narrazione.
Uno sguardo puro e avvertitissimo, molto distante dalle logiche e dai meccanismi di qualunque retorica, privo di malizia o ideologia.