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La scena è l'interno di una torre, forse cella di isolamento, forse appendice di un nosocomio, forse rifugio metropolitano: comunque un luogo di segregazione e contemplazione. Chi parla è un malato di tempo, una figura a metà strada fra l'avo vaticinante, il lungodegente, il disabile. Il suo interlocutore è una sorta di liquido testimone, di infermiere-carceriere. Una spia neghittosa. L'allettato parla, immagina, comanda, si commuove, mette in disordine i ricordi, e l'altro ascolta, più distratto che ammaliato, più sordo che sedotto.
Entrambi confitti nello spettacolo di una inevitabile continuità. Alberto Rollo torna alla scrittura con un poemetto teso, nervoso, allucinato. Un lavoro che l'ha accompagnato per almeno un quarto di secolo.